Premessa
Nel 1928, Alexander Fleming notò che in una piastra di coltura, attaccata da una muffa, la crescita batterica era inibita; da quella muffa al primo antibiotico il passo fu relativamente breve. Quasi un secolo più tardi, le cose sono cambiate al punto da non essere nemmeno confrontabili, a tutto vantaggio di miliardi di persone e delle capacità di cura espresse dalla medicina moderna. Ecco come si presenta al giorno d’oggi il percorso che traduce osservazioni e/o intuizioni di uno scienziato (o di un team) in un farmaco disponibile al pubblico.
Dall’intuizione alla molecola
Come spesso accade nell’innovazione scientifica (e non solo), il primo passo è frutto dell’intuizione: l’idea che “colpire” un determinato processo biochimico – cioè intervenire in esso – possa rappresentare una nuova, valida strategia per migliorare il decorso di una certa patologia.
Maurizio Scaltriti, vicepresidente di Medendi
L’intuizione di base scaturisce solitamente da fattori oggettivi come nuovi dati di laboratorio accessibili in letteratura, il progresso tecnologico, semplici osservazioni cliniche su pazienti trattati con altri farmaci o, anche, un insieme di tutti questi elementi. Individuato il “bersaglio”, cioè il processo biochimico su cui si vuole intervenire (solitamente per inibirlo o regolarlo), si procede con lo screening di migliaia – a volte, milioni – di molecole esistenti in natura o sintetizzate in laboratorio per trovare quelle che si possono legare meglio al target in questione. Per scendere un po’ più nello specifico, possiamo servirci dell’esempio lineare e comprensibile rappresentato dai farmaci antitumorali a bersaglio molecolare (non chemioterapici). Questi farmaci hanno l’obiettivo di intervenire su un processo biochimico per inibirlo o regolarlo e, per riuscirci, agiscono sulla molecola che lo “amministra” (ecco perché bersaglio molecolare).
Un’analogia banale ma limpida è una perdita d’acqua dal rubinetto del lavello: la perdita d’acqua è il processo che vogliamo inibire, e poiché il flusso d’acqua è regolato dal rubinetto, il rubinetto è la nostra molecola bersaglio.
La molecola bersaglio, poi, è spesso una proteina e, più precisamente, può essere o un enzima, cioè un tipo di proteina che fa da catalizzatore a certi processi biochimici, oppure un diverso tipo di proteina che comunque agisca da “modulatore” per processi biochimici come importanti funzioni per la sopravvivenza cellulare e/o per la risposta immunitaria.
Individuato il bersaglio, bisogna valutare se sia ubicato sulla superficie cellulare (membrana) o all’interno della cellula. La rilevanza di questo fattore è lampante nell’esempio degli anticorpi monoclonali, ormai comunemente utilizzati nel cancro della mammella, del colon, nei melanomi e per altre patologie tumorali. Questi anticorpi si attaccano alla parte più esterna della proteina bersaglio e ne limitano la funzionalità. Sono efficaci perché il loro bersaglio è sulla superficie cellulare ma nulla potrebbero fare se il bersaglio fosse interno, dal momento che gli anticorpi non possono superare la membrana; in questo caso, si dovranno individuare altre molecole capaci di farlo.
Ottimizzazione dei “candidati”
A questo punto dell’iter, è comune che i primi screening in vitro abbiano identificato decine di molecole con potenziale attività farmacologica, ma molto difficilmente una di queste sarà il “prodotto finale”: le molecole candidate dovranno infatti subire una serie di modificazioni chimiche per migliorarne le qualità fondamentali, cioè:
- specificità: più un farmaco è specifico, minore è la possibilità che colpisca altre proteine e causi tossicità;
- potenza: un farmaco che non è sufficientemente potente, non serve a nulla;
- solubilità: un farmaco che non si distribuisce come deve nell’organismo, non arriverà mai a colpire il bersaglio.
Questa fase di ottimizzazione delle molecole più promettenti è frutto di lunghi e laboriosi studi in silico (simulazioni al computer) e in vitro, e ha l’obiettivo di arrivare a un numero limitato di candidati da testare in diverse linee cellulari tumorali (e non) per misurarne nuovamente potenza e specificità. Se questi primi test sono incoraggianti, il passo successivo è studiarne la farmacocinetica (come si assorbe e distribuisce il farmaco nel tempo), la farmacodinamica (come e quanto inibisce il bersaglio nel tempo) e la tossicità. La sperimentazione animale (sperimentazione in vivo), seppur limitata al massimo e strettamente regolamentata dalle autorità competenti, è purtroppo ancora indispensabile per valutare questi parametri prima di passare alla sperimentazione clinica.
Sperimentazione
Arrivati a questo punto, di solito, si investe sul “miglior” candidato per iniziare la sperimentazione in pazienti, avviata di regola con un processo chiamato in gergo “dose escalation”: dosi crescenti di farmaco, inizialmente molto basse, vengono somministrate a gruppi ristretti di pazienti al fine di trovare la dose ottimale (non tossica). Uno schema di dose escalation molto diffuso contempla tre pazienti per dose fino a che non si arriva alla massima dose tollerata, dalla quale poi si torna a scendere fino a individuare la dose ottimale da usare nello studio clinico di fase I vero e proprio.
Fase I
Anche se la fase I è principalmente usata per valutare la tollerabilità del farmaco, è indubbio che ogni ricercatore è attentissimo alle risposte cliniche che si possono osservare, anche in soggetti con malattia molto avanzata. Questi “primi segnali” sono spesso usati per disegnare studi clinici di fase II, cioè su un campione più numeroso di pazienti con patologie e/o caratteristiche tumorali ben precise.
Fase II
Spesso è questo il momento della verità in cui si decreta se quanto fatto fino a quel punto sia un vicolo cieco o un possibile successo: la popolazione di pazienti ammessi alla sperimentazione di fase II è infatti sufficientemente vasta e omogenea da delineare risultati in certa misura definitivi, nel bene o nel male. In questa fase di sperimentazione, una parte di pazienti riceve il nuovo farmaco e un’altra parte riceve le cure normalmente somministrate nella pratica clinica per quelle patologie a quegli stadi (sono ormai rarissimi i casi di un nuovo farmaco comparato a un vero e proprio placebo, poiché, spesso, non sarebbe eticamente accettabile): il futuro del nuovo farmaco dipende dai risultati che emergono dal confronto tra i due gruppi.
Fase III
La successiva sperimentazione di fase III prevede che un campione ancora più numeroso di pazienti venga trattato con il farmaco, magari con differenti dosi e/o schemi di somministrazione. Se gli esiti sono positivi, gli studi condotti in questa fase sono canonicamente quelli che forniscono alle autorità competenti i dati necessari per valutare l’approvazione del nuovo farmaco.
Eccezioni
Sebbene le tre fasi di sperimentazione siano l’iter standard, questo percorso non è sempre stringente: ci sono farmaci che, grazie alla loro indiscutibile efficacia (normalmente in soggetti con alterazioni genetiche tumorali particolari), sono approvati prima di approdare alla fase III. Sono casi nei quali l’efficacia è talmente evidente che sarebbe anti etico ritardare la somministrazione del nuovo farmaco al maggior numero di pazienti.
Approvazione
Prima che il nuovo farmaco sia messo in commercio deve essere approvato a livello nazionale in base ai sistemi normativi e sanitari del singolo paese: paesi diversi renderanno disponibile il farmaco in tempi diversi in funzione dei tempi dettati dai propri iter di approvazione. Quando il farmaco è approvato e reso disponibile al commercio, il medico può prescriverlo ai pazienti e il traguardo del nostro percorso è finalmente superato, di solito ad alcuni anni di distanza da quella prima, iniziale intuizione.
La ricerca traslazionale
Un tipo di ricerca parallela, detta “traslazionale”, può venire intrapresa quando il farmaco entra nelle fasi cliniche. Questi studi si basano sull’analisi di tessuti/sangue dei pazienti trattati con il farmaco sperimentale per meglio capire come funzioni e agisca, per identificare i potenziali meccanismi di resistenza nel tempo e, di conseguenza, potenziali strategie terapeutiche capaci di aumentarne ulteriormente l’efficacia, magari in combinazione con altri farmaci. Con il suo approccio fortemente multidisciplinare e collaborativo, orientato alla condivisione di dati, studi ed esperienze attraverso la comunità scientifica, la ricerca traslazionale è ormai un cardine per lo sviluppo e il miglioramento dei nuovi farmaci sia nei centri di ricerca più avanzati che nelle grosse compagnie farmaceutiche.
Note
La base più strettamente scientifica di questo articolo è apparsa per la prima volta su “Medical Facts di Roberto Burioni” – link all’articolo