Premessa
La medicina traslazionale trasforma le scoperte scientifiche provenienti dagli studi di laboratorio, clinici o di popolazione in nuovi strumenti clinici e applicazioni che migliorano la salute umana riducendo l’incidenza, la morbilità e mortalità delle malattie.
John Hutton, Cincinnati Children’s Hospital Medical Centre
Il termine “traslazionale” (medicina traslazionale, scienza traslazionale, ricerca traslazionale) sta acquisendo rilevanza non solo in campo medico-scientifico ma, anche, presso il pubblico e i media. Questo fatto è tanto logico quanto naturale se consideriamo che l’approccio “traslazionale”, spiccatamente interdisciplinare e altamente collaborativo, è capace di creare un canale diretto e bidirezionale tra due contesti che si sono sempre parlati con difficoltà maggiori di quanto si potrebbe immaginare: la ricerca di base e la pratica clinica.
Il “gap”
Tra ricerca di base e pratica clinica vi è sempre stato una sorta di scollamento, “di ritardo” (per semplificare) prima che le scoperte della prima originassero strumenti a disposizione della seconda. Il motivo di questo è comprensibile se schematizziamo la finalità più intima dei due contesti: la ricerca di base mira a creare conoscenza; la pratica clinica mira a migliorare la salute dei pazienti. Poiché “dal laboratorio al letto del paziente” (bench to bedside, in inglese) è la massima sintesi della natura stessa della medicina traslazionale, si intuisce come essa sia proprio quel ponte che mancava tra ricerca di base e pratica clinica, l’elemento capace di legare strettamente, virtuosamente e “velocemente” la prima alla seconda.
Un circuito virtuoso
Se il fine della pratica clinica è migliorare la salute del paziente grazie alle strategie diagnostiche e terapeutiche disponibili, la scienza traslazionale sposta l’attenzione su un piano più ampio: creare nuovi e migliori strumenti clinici per migliorare la salute umana. Ciò è possibile proprio perché la medicina traslazionale mira a trasformare in attività clinica i risultati della ricerca di base, ed ecco perché i team di medicina traslazionale lavorano con un occhio costantemente rivolto all’applicazione clinica delle loro scoperte nel più breve tempo possibile.
Perché tutto ciò “funzioni” davvero e quel dialogo tra ricerca di base e pratica clinica sia realmente virtuoso, dobbiamo chiamare in causa quei termini utilizzati già in premessa: interdisciplinare, collaborativo, bidirezionale. Un team di medicina traslazionale include competenze diverse. In una rappresentazione schematica, potremmo porre agli estremi del “ponte” i ricercatori da un lato e i clinici dall’altro. Nel mezzo, potremo avere esperti di biologia molecolare, chimica, bioinformatica e ciascuno, con le proprie competenze raccordate in un ambiente altamente collaborativo, parteciperà al processo che traduce i risultati della ricerca in strumenti clinici.
Abbiamo però anche detto che il canale attraverso cui si svolge questo processo è bidirezionale. La pratica clinica non è infatti solo il punto di arrivo, ma anche di verifica e ripartenza. Un team di medicina traslazionale riceverà feedback dalla clinica e questo feedback sarà fondamentale per percorrere a ritroso il ponte, apportare miglioramenti o aprire nuove strade, e produrre strumenti nuovi o migliorati da portare nuovamente (e, se possibile, immediatamente) in clinica. Questo processo virtuoso è talvolta molto più pratico e veloce di quanto si potrebbe pensare: ne parliamo nei prossimi paragrafi.
La medicina traslazionale in campo oncologico
In campo oncologico, la medicina traslazionale è spesso un perno fondamentale nello sviluppo di nuove terapie o nel miglioramento di quelle già in uso. Un esempio è costituito da quegli studi che partono dall’identificazione di alterazioni genetiche nei campioni ottenuti da pazienti che hanno sviluppato recidive dopo aver risposto ad un farmaco a bersaglio molecolare. In questi casi, il DNA ottenuto da biopsie o da campioni chirurgici tumorali viene sequenziato e confrontato con il DNA ottenuto dal tumore dello stesso paziente prima di iniziare la terapia. Dal confronto possono emergere differenze significative che diventano oggetto di validazione sperimentale in laboratorio. Le domande a cui si vuole rispondere si concentrano, in primis, sull’eventualità che le differenze riscontrate siano responsabili della recidiva. Per fare ciò si creano modelli sperimentali in vitro e in vivo (abbiamo già parlato di come si sviluppano nuovi farmaci e della sperimentazione animale) nei quali queste alterazioni vengono studiate con tecniche di biologia molecolare: vengono riprodotte in cellule tumorali per confermare la loro importanza nel causare farmaco-resistenza.
La fase successiva consiste nello sperimentare farmaci o combinazioni di farmaci capaci di avere effetti antitumorali sui modelli predisposti, con il fine ultimo di individuare le migliori alternative terapeutiche da sviluppare nella clinica. Le tecnologie applicate in questi casi sono in particolare gli screenings farmacologici che possono essere effettuati in vari modelli sperimentali. Spesso è anche possibile generare modelli animali, chiamati xenografts, derivati direttamente dalle biopsie dei pazienti e quindi molto fedeli alle condizioni cliniche reali. Queste biopsie possono essere impiantate in topi immunocompromessi ed espanse per testare diversi farmaci contemporaneamente, così da ottenere un dato personalizzato secondo il tumore del paziente stesso. Questi esperimenti possono essere condotti indipendentemente o in parallelo al trattamento nei pazienti. In ogni caso, i risultati ottenuti da queste ricerche hanno impatto immediato sullo sviluppo di trial clinici, di farmaci e di metodiche di screening. Trial clinici possono essere modificati al netto di nuovi dati sperimentali di laboratorio per aggiungere o migliorare regimi terapeutici da testare.
Quando il “ponte” si accorcia e il ciclo diventa più veloce…
Chi lavora per creare nuove farmaci può anche usare le informazioni ottenute sulle mutazioni genetiche appena scoperte per modificare la struttura molecolare dei nuovi farmaci in modo tale che siano comunque efficaci. A volte è possibile condurre questi studi a stretto contatto tra ricercatori e clinici. Quando questo avviene, si riesce ad analizzare e studiare le alterazioni che inducono resistenza ai farmaci in tempo reale mentre il paziente sta ancora ricevendo l’iniziale linea terapeutica. Quando questo accade, il laboratorio di medicina traslazionale può comunicare i propri risultati all’oncologo e questi, se le condizioni lo permettono, può modificare il trattamento del suo paziente in tempo reale permettendo così di avere una risposta farmacologica più duratura: ecco la rappresentazione più chiara, virtuosa ed emblematica di cosa significhi che la medicina traslazionale è un ponte di collegamento bidirezionale tra ricerca e pratica clinica.
Conclusioni
La medicina traslazionale è uno strumento potentissimo al servizio dei clinici e, in ultimo, dei pazienti poiché si colloca esattamente là dove per lungo tempo lo scollamento tra ricerca di base e pratica clinica ha impedito il rapido tradursi di nuove scoperte in nuovi strumenti clinici. La medicina traslazionale funge dunque da accelerante virtuoso. Sfortunatamente, non tutti gli ospedali possono effettuare questi studi sui singoli pazienti in tempo reale, ma diversi centri in tutto il mondo lavorano seguendo queste basi e divulgando i propri risultati alla comunità scientifica attraverso riviste specializzate. La medicina traslazionale è in continua evoluzione e contribuisce a migliorare la pratica medica di ogni giorno, in ogni parte del mondo.