Premessa
Questa non è una guida su “cosa fare se ti viene diagnosticato un tumore”, bensì una rappresentazione delle fasi che, di norma, compongono il percorso seguito dal paziente insieme alle figure professionali coinvolte a vario titolo. Inoltre, sebbene importantissimo (o, meglio: proprio perché importantissimo) non tratteremo l’aspetto psicologico: l’unico suggerimento realisticamente sensato, in questa sede, è di contattare il prima possibile un appoggio psicologico professionale che, molto spesso, è fornito dalla stessa oncologia dell’ospedale.
Diagnosi e prognosi
Anche se torneremo su questo punto più avanti, è importante introdurre fin da subito un concetto: “cercare altri pareri medici è un’ottima cosa”. Ma “altri” rispetto a cosa? Abbiamo detto che non avremmo sfiorato il tema psicologico ma qui, solo qui, una piccola “invasione di campo” è necessaria…
Al netto di ogni variabile e circostanza specifica, una diagnosi di tumore genera sempre uno sconvolgente stress emotivo. È perciò normale che il paziente si affidi completamente alla prima figura professionale capace di rappresentare un’ancora di ordine e di speranza. Tipicamente, questa figura è l’oncologo (o il pool medico) che ha redatto la diagnosi iniziale. Se tutto ciò rappresenta un valido aiuto per il paziente, vi è però un elemento che va comunque considerato, e cioè che l’oncologia è una materia molto vasta e in continua evoluzione: vi sono oncologi esperti di certe patologie e altri oncologi aggiornatissimi su altre, così come vi sono strutture con enorme esperienza nel trattare certi tumori e altre strutture più efficaci in altri. Per questo, soprattutto a fronte di situazioni diagnosticamente complesse, sarà probabilmente l’oncologo stesso a suggerire l’opportunità di ottenere una “second opinion” il più qualificata e aggiornata possibile. Se però così non fosse, è ragionevole che sia il paziente stesso a sollevare questa possibilità.
Conoscere il nemico
Poiché sarà la base per ogni decisione seguente, fondamentale è una diagnosi corretta e, quindi, una precisa “caratterizzazione” del tumore. Sebbene molto dipenda dal tipo del tumore, dalla sua sede e dallo stadio al quale viene diagnosticato, la fase obbligatoria successiva alla diagnosi è l’identificazione del sottotipo tumorale. Negli ultimi decenni, infatti, la medicina ha compiuto enormi progressi e al giorno d’oggi è limitato parlare genericamente di leucemia, o di cancro al seno, oppure di cancro al polmone: queste patologie esprimono molti e diversi sottotipi (qui un esempio delle tre tipologie di cancro al seno), spesso correlati alle alterazioni genetiche che ne sono la causa, e ciascun sottotipo potrebbe essere maggiormente o esclusivamente sensibile a trattamenti mirati. Sono dunque necessarie analisi specifiche – come colorazioni del campione tumorale (che sia sangue, biopsia o blocchetto chirurgico) e analisi molecolari – per caratterizzare con precisione la patologia e individuare il percorso terapeutico da intraprendere.
La strategia terapeutica
Il passo successivo è la definizione del percorso terapeutico, che dipende da numerosi fattori tra cui tipo e sottotipo del tumore, relativa estensione e diffusione, e quadro clinico generale del paziente. Il percorso terapeutico è composto da differenti trattamenti che si avvicendano e, spesso, sovrappongono, nel definire la strategia migliore per la prognosi del paziente. A seconda dei casi, quello che talvolta viene definito “trattamento principale” e che solitamente coincide con l’intervento chirurgico (talvolta con la radioterapia), può non essere il primo passo del percorso: può infatti essere preceduto da trattamenti farmacologici (terapia neoadiuvante) e seguito, anche quando la rimozione chirurgica del tumore è (o appare) completa, da altri trattamenti farmacologici (terapia adiuvante).
Terapia neoadiuvante
Lo scopo della terapia neoadiuvante è la riduzione di volume e di diffusione del cancro così che il successivo intervento risulti meno invasivo, con minori conseguenze sulla ripresa del paziente e, soprattutto, esito più favorevole possibile. Il trattamento può basarsi su un solo farmaco o sull’effetto sinergico di una combinazione di farmaci. Al giorno d’oggi, inoltre, non esiste più (solamente) la chemioterapia sistemica: la ricerca ha fatto balzi in avanti negli ultimi decenni, e le armi al novero dei pazienti oncologici contano ora varie “tecnologie” tra cui farmaci a bersaglio molecolare, anticorpi coniugati, immunoterapia, terapia ormonale, linfociti T (per approfondire: i farmaci antitumorali del futuro). Nel trattamento possono essere inoltre inclusi farmaci palliativi per limitare gli effetti collaterali della terapia vera e propria.
Terapia adiuvante
Tecnicamente, si può parlare di vera e propria terapia adiuvante in assenza di qualsiasi sospetto che vi siano dei residui macroscopici di malattia. Significa che la terapia adiuvante viene somministrata quando sembra che il cancro non sia più presente nell’organismo o in seguito a remissione completa oppure grazie a rimozione chirurgica.
Se può essere difficile comprendere perché il paziente debba sopportare una terapia spesso debilitante pure in assenza di tumore (per dirla in parole semplici, “quando è già guarito”), la risposta è in realtà semplice: studi mirati e precise osservazioni statistiche hanno chiarito come la terapia adiuvante, soprattutto in certi tipi di tumore, riduca significativamente la probabilità di recidiva. Infatti, anche quando non vi siano più residui macroscopici (identificabili) di malattia, cellule tumorali potrebbero comunque essere ancora presenti e generare, a distanza di mesi o di anni, un nuovo tumore, nel sito originario e/o in altre sedi. Il pericolo che ciò accada dipende, come sempre, da numerose variabili: tipo di tumore, estensione, fattori concomitanti. Ad esempio, il recente studio RxPonder (ne abbiamo parlato qui) presentato a fine 2020 al San Antonio Breast Cancer Symposium ha chiarito come a fronte della medesima patologia (tumore al seno in stadio II o III, HER negativo e positivo ai recettori per l’estrogeno, da 1 a 3 linfonodi interessati), la terapia adiuvante non sia necessaria per certe pazienti in post-menopausa, poiché non incide sul tasso di sopravvivenza a 5 anni, mentre risulti invece importantissima per le pazienti in pre-menopausa per le quali aumenta significativamente il tasso di sopravvivenza libere da malattia a 5 anni.
La terapia nelle diagnosi di patologia metastatica
Un tumore diagnosticato in fase metastatica è un tumore che ha avuto il tempo di progredire al punto che alcune sue cellule sono evase dal sito originario e hanno creato masse tumorali in altre sedi. In questi casi, è raro che si intervenga chirurgicamente: una patologia diffusa può essere trattata al meglio da una terapia “sistemica”, quindi farmacologica. In certi casi forse meno complessi e indubbiamente più “fortunati” di altri, la terapia può migliorare il quadro clinico al punto da rendere possibile un intervento chirurgico di rimozione.
Resistenza farmacologica e altre variabili lungo il percorso
Spesso a causa di specifiche alterazioni genetiche delle cellule tumorali, un tumore può essere resistente alla terapia – anche se teoricamente mirata a quel tumore – o può diventarlo con il passare del tempo. Anche per questo motivo – oltre che per verificare in genere l’efficacia della terapia – il percorso terapeutico è costellato di controlli: TAC, risonanze, analisi ematologiche, biopsie, scintigrafie fanno parte di una prassi che, per quanto possa risultare poco piacevole, serve a confermare che la terapia in atto sia efficace e a variarla non appena dia segno di non esserlo più.
Diagnosi di cancro: e ora?
Per molti e validi motivi – alcuni li potremmo definire “storici” anche se relativamente recenti – una diagnosi di “cancro” spaventa molto, forse più di qualsiasi altra. Spaventa al punto che nel sentire comune è da molti considerata tuttora una sorta di sentenza senza appello, ma la realtà dei fatti non è più necessariamente così fosca. L’oncologia moderna ha poco in comune con l’oncologia di vent’anni fa (o, se per quello, anche solo di 10 anni fa). Se per certe patologie il quadro rimane purtroppo molto sfavorevole (glioblastoma, mesotelioma, patologie del pancreas), in molti altri casi l’orizzonte è oggi ricco di speranze ben salde, e questo grazie soprattutto a due fattori: diagnosi precoci e approcci terapeutici mirati resi possibili dalla caratterizzazione molecolare del tumore.
Una maggiore sensibilità nei professionisti, nelle strutture e nel pubblico stesso rispetto a prassi di screening e controllo (vedi le politiche di screening mammografico o del colon implementate dalle aziende sanitarie del territorio) ha innalzato la percentuale di diagnosi precoci e migliorato così la prognosi. Nel contempo, terapie mirate come farmaci a bersaglio molecolare, anticorpi coniugati e i recenti farmaci agnostici (o jolly) sono sempre più efficaci nel combattere il tumore.
Nel caso di malattia metastatica, la situazione è più difficile e la prognosi più sfavorevole: è spesso una patologia più aggressiva, con alterazioni genetiche complesse che la rendono più resistente alle terapie, e diagnosticata in una fase necessariamente avanzata della proliferazione tumorale. Ciò non toglie che, soprattutto per certi tipi tumorali, la sopravvivenza anche con malattia metastatica si sia allungata moltissimo rispetto a pochi anni fa, e casi di guarigione completa sono forse rari (o poco comuni) ma non impossibili né unici: molto dipende dalle caratteristiche genetiche delle cellule tumorali e dalla loro vulnerabilità a terapie mirate o chemioterapia.
Conclusioni
Fortunatamente, grazie alla ricerca condotta in ambito aziendale privato, in ambito accademico e attraverso la stretta e frequente cooperazione di questi due mondi (che non sono in antitesi come a volte, erroneamente, si vuole credere o far apparire), l’oncologia moderna presenta al paziente un orizzonte profondo e ricco di potenzialità in termini di diagnostiche avanzate e raffinate e terapie sempre più efficaci.
Enormi passi in avanti sono stati compiuti anche in relazione alla sensibilizzazione del pubblico per quanto riguarda sia la conduzione di stili di vita sani (che limitino quegli “insulti” all’organismo capaci alla lunga di generare le patologie) sia per l’accettazione di prassi di screening e controllo volte a rendere sempre più precoci le diagnosi. Inoltre, analisi genetiche al giorno d’oggi semplici e veloci (da campione di sangue o saliva), consentono di sapere se si è portatori di alterazioni genetiche che aumentano il rischio di sviluppare certe patologie oncologiche.
Nonostante ciò, il “cancro” rimane sempre un nemico da non sottovalutare, un nemico che va combattuto al meglio delle possibilità. Perché questo sia possibile, perché sia la strategia potenzialmente più efficace a essere messa in atto, e non una strategia più generica ma talvolta meno efficace, è necessario che questo nemico sia conosciuto alla perfezione. Tornando quindi al tema con cui abbiamo aperto l’articolo, ricordate che il “pezzo chirurgico” servito per la prima diagnosi è comunque di proprietà del paziente e può essere liberamente richiesto e ottenuto così che possa essere impiegato per analisi addizionali presso altre strutture pubbliche o private. Questo non è un invito a non avere fiducia nel sistema sanitario nazionale, bensì un’esortazione a prendere coscienza che quando si tratta della propria vita, è giusto e sacrosanto percorrere tutte le strade che appaiano ragionevoli e scientificamente solide: nel 2021 non può né deve esistere, da un lato, la paura di “offendere” il medico esprimendo la volontà di cercare una seconda opinione, e dall’altro la resistenza del medico a questa richiesta: se così fosse, sarebbe forse la dimostrazione che una seconda opinione è più che mai opportuna.