Premessa
Molto probabilmente abbiamo tutti sentito parlare di “biopsia” e abbiamo un’idea di cosa sia e a cosa serva: il prelievo di una piccola porzione di tessuto da una sede “sospetta”. Il campione tissutale, opportunamente conservato, viene sottoposto a specifiche analisi per chiarirne la natura e, nel caso di un tumore, ricavare le prime informazioni utili su tipo e aggressività della patologia. Ciò che è meno noto – e a cui si prestano tanti pazienti nell’interesse personale ma non solo – è che l’utilizzo della biopsia non è però circoscritto alla sola fase diagnostica: le informazioni che indirettamente consente di ricavare (indirettamente perché ottenute attraverso le analisi successive) possono infatti rivelarsi fondamentali lungo l’intero percorso terapeutico sia nel contesto del trattamento individuale del paziente sia nell’ambito di studi clinici sperimentali.
Biopsie oltre la fase diagnostica iniziale
Il tumore è una proliferazione cellulare anomala, incontrollata, ovviamente patologica che la medicina moderna affronta quasi sempre – dove possibile e consigliabile in sinergia con altri trattamenti – con una terapia farmacologica: miliardi di cellule che evolvono in continuazione sottoposte all’attacco di farmaci che mirano a distruggerle e a bloccare o limitare quel motore impazzito che ha avviato e alimenta la progressione della malattia.
Questa pressione farmacologica esercitata sul tumore, soprattutto se efficace, può indurre alcune popolazioni di cellule a reagire, a cambiare nel tentativo di diventare resistenti ai trattamenti. In fondo, si tratta di una sorta di pressione evolutiva esercitata su scala temporale minima: adattarsi per sopravvivere, un imperativo di base che però, se applicato alle cellule tumorali, vogliamo individuare per tempo, scardinare e impedire a tutti i costi. Immaginiamo ad esempio che un farmaco, nell’arco di un certo numero di mesi, riesca a ridurre il volume tumorale del 90%. Quel 10% che rimane ha qualcosa di speciale e, se sì, cosa? Era più resistente sin dall’inizio oppure è cambiato durante i mesi di trattamento? Le cellule rimaste hanno qualcosa di nuovo o diverso e, se è così, che cosa?
Rispondere a queste domande è cruciale per sperare di aggirare le ultime difese del tumore, ma per trovare le risposte dobbiamo indagare la situazione. Ecco la necessità di una biopsia, un prelievo di tessuto (nel nostro esempio) da quel 10% rimanente della massa tumorale così da analizzarne le cellule (con varie tecniche, incluso il sequenziamento genetico), scoprire i meccanismi di resistenza ai farmaci e, se possibile, individuare terapie per contrastarli o prevenirli.
Un esempio reale
Andrea è un paziente a cui è stato inizialmente diagnosticato e rimosso chirurgicamente un tumore duodenale (GIST in stadio 1). Nonostante l’esito favorevole della chirurgia, due anni dopo sono comparse metastasi il cui DNA (analizzato su campione bioptico) ha rivelato la presenza di una mutazione della proteina KIT. Il trattamento mirato individuato in base a queste analisi si è subito dimostrato efficace e per i successivi tre anni le masse si sono ridotte finché, a un certo punto, hanno smesso di farlo. Una nuova biopsia e un nuovo sequenziamento del DNA tumorale hanno evidenziato che le cellule tumorali resistevano alla terapia perché, nel frattempo, erano cambiate, acquisendo un’ulteriore mutazione che conferiva loro resistenza al farmaco. La terapia è stata così cambiata, è tornata a essere efficace, e le masse hanno ripreso a ridursi fino al punto di essere rimosse chirurgicamente (l’intera storia di Andrea è disponibile qui).
Un altro “momento” in cui può essere importante analizzare il tessuto tumorale è la “fase acuta” della terapia: a giorni o alcune settimane dalla prima somministrazione è infatti possibile studiare i cambiamenti precoci del microambiente tumorale indotti dai farmaci. Ciò serve a comprendere non solo gli effetti ma, anche, le conseguenze della terapia. Ad esempio, un farmaco che inibisce una determinata funzione cellulare potrebbe, in maniera non intuitiva, scatenare anche cambiamenti tali da suggerire che un secondo farmaco, magari immunoterapico, possa essere sinergico. Nel contesto della ricerca e della sperimentazione, queste conoscenze sono utilissime per suggerire nuove combinazioni terapeutiche che risultino più efficaci dei singoli farmaci, tanto che quasi tutti i più recenti studi clinici si basano su questo tipo di informazioni.
Biopsia: il campione è “vostro”!
Il prelievo di tessuto può avvenire in modi differenti. In relazione al contesto, si differenzia tra biopsia incisionale e biopsia escissionale: nella prima, viene prelevato un frammento della lesione da indagare, mentre nel secondo viene prelevata l’intera lesione (il classico esempio del neo” sospetto” che viene asportato e poi analizzato). Il sito della lesione, poi, determina in larga misura il metodo utilizzato per il prelievo che può essere guidato da TAC o ecografia, condotto per via endoscopica oppure tramite ago.
Di solito, i campioni di tessuto vengono prima fissati in formaldeide e poi inclusi in paraffina. Questa procedura permette di conservare per moltissimo tempo l’architettura tissutale e le caratteristiche molecolari dell’eventuale tumore. Il cosiddetto “blocchetto” viene poi inviato a un laboratorio di anatomia patologica. Ciò che molti pazienti ignorano è che il campione è di loro proprietà, a loro disposizione qualora ne facciano richiesta per inviarlo ad altri laboratori e sottoporlo a ulteriori analisi. Se, ad esempio, la struttura ospedaliera che ha effettuato la biopsia e conserva il blocchetto decide, per il paziente, di non dare seguito a indagini ulteriori (analisi genetica e/o proteomica del campione), il paziente può rivolgersi all’ospedale, ottenere il blocchetto e consegnarlo – anche tramite spedizione – direttamente ai laboratori individuati o a chi si incarichi, come Medendi, di implementare la più ampia e attenta valutazione della situazione che la medicina rende possibile.
Quando il tipo di analisi da condurre richiede invece un campione congelato, il tessuto prelevato (o parte di esso) viene subito posto sotto “ghiaccio secco” o azoto liquido. Alcune tecniche specifiche come la immunofluorescenza non possono infatti essere applicate a tessuto in paraffina.
Conclusioni
Per pazienti e familiari di pazienti non è sempre facile comprendere perché venga richiesta (ma sarebbe meglio dire “proposta”, visto che la scelta è sempre del paziente, ovviamente) un’ennesima biopsia dopo quella iniziale in fase diagnostica. D’altro canto, il prelievo di una biopsia, soprattutto da zone di non facile accesso, non può certo essere definito un’esperienza gradevole. Eppure, sono sempre di più i pazienti che acconsentono non solo per il bene proprio ma, anche, per il bene condiviso che ogni piccola goccia di conoscenza può portare alla comunità e a futuri pazienti.
La consapevolezza è alla base di scelte largamente ponderate e dunque, quasi sempre se non sempre, anche profondamente etiche: i pazienti sanno che il loro sforzo può realmente contribuire allo sviluppo di migliori terapie e accettano di sottoporsi a procedure poco gradevoli, talvolta reiterate in un breve arco di tempo, anche per semplice, immensa spinta altruistica. Un grazie a tutti loro.