Premessa
Nel lungo percorso di studio e sviluppo di nuovi farmaci (che abbiamo approfondito in questo articolo), la ricerca parte quasi sempre “in vitro” (in provetta), “in silico” (simulazioni al computer) e su cellule coltivate su plastica; è solo quando ci si rende conto che il farmaco funziona contro un determinato target che si passa alla prova “in vivo” con modelli animali. Poiché la sperimentazione su modelli animali suscita forti e comprensibili reazioni nel pubblico, vediamo di comprenderne le ragioni e lo scopo così da definire con chiarezza un impiego che è tanto necessario quanto cauto e strettamente regolamentato.
Sperimentazione animale: perché?
Parte 1
In massima sintesi, per lo stesso motivo per cui vengono usati i crash test dummies nel testare (un esempio tra molti) gli impianti di sicurezza delle automobili. I crash test dummies sono manichini con fattezze umane (uomo, donna, bambino, neonato) capaci di replicare con sufficiente fedeltà le caratteristiche plastiche e meccaniche dell’essere umano.
I crash test dummies sono dunque modelli: modelli in fattezze umane utilizzati per verificare l’efficacia dell’airbag, la sicurezza dell’abitacolo, l’efficienza dell’impianto frenante, senza mettere a repentaglio la sicurezza di nessuno.
Così come nessuno di noi vorrebbe mai viaggiare su un’auto potenzialmente (molto) insicura, nessuno sarebbe disponibile a sperimentare personalmente l’efficacia dell’airbag in un impianto industriale di test mentre l’abitacolo sperimentale su cui è seduto viene lanciato contro un muro a velocità sostenuta. Per nostra fortuna esistono i crash test dummies, cioè modelli sufficientemente precisi e affidabili da predire ciò che accadrebbe, in quelle situazioni, a un essere umano.
Purtroppo, spesso, nella ricerca scientifica e, nel nostro caso, nello studio di nuovi farmaci, non esistono modelli in vitro, in silico o di altro genere che siano sufficientemente completi e affidabili da predire cosa accadrebbe se quella specifica molecola, quello specifico farmaco, venissero usati su un paziente umano. Ecco perché abbiamo necessità di altri modelli, modelli animali.
Parte 2
Come abbiamo detto, dunque, non disponiamo (ancora) di modelli in vitro, in silico o su altro supporto sufficientemente fedeli da predire con precisione gli effetti di un farmaco nell’organismo umano. Vediamo ora nello specifico di capire perché sono proprio i modelli animali l’unica opzione possibile affinché la ricerca scientifica possa procedere con la sperimentazione clinica senza mettere a repentaglio la salute dei pazienti coinvolti.
- Perché, anche se si stanno sviluppando modelli tridimensionali il più possibile vicini alla realtà, i modelli in vitro non hanno ancora il sistema vascolare tipico di un tumore che cresce in un organismo.
- Perché in vitro è pressoché impossibile disporre di un sistema immunitario completo e dunque predire gli effetti del nuovo farmaco su di esso. Si possono infatti aggiungere macrofagi, linfociti e altri “singoli componenti”, ma avere l’intero e completo sistema di presentazione dell’antigene è impossibile.
- Perché mentre in vitro il farmaco arriva direttamente sulle cellule, in un organismo deve invece essere assorbito (nel caso di somministrazioni orali) o comunque distribuirsi nel flusso sanguigno dove ci sono proteine che lo possono legare (quasi sempre) e, possibilmente, deve passare la barriera emato-encefalica. Per misurare quanto farmaco arriva veramente al tumore è quindi necessario un modello in vivo.
- Perché in vitro è possibile verificare se il farmaco siaè efficace nell’uccidere le cellule target (le cellule tumorali), ma non si può prevedere l’effetto su altre cellule dell’organismo: farmaci che in vitro si sono rivelati incredibilmente efficaci (vere e proprie “bombe”), sono risultati tossici a livelli intollerabili per un organismo vivente.
- Perché può accadere che farmaci efficaci in vitro non lo siano altrettanto in vivo, vuoi per la tossicità o perché l’organismo se ne libera troppo velocemente. Sono tante le idee che scaturiscono da lavoro con cellule che finiscono per inframgersi sul muro della prova in vivo.
- E vale anche l’esatto opposto: ci sono infatti farmaci poco efficaci in vitro che si rivelano invece molto efficaci in vivo: molti anticorpi monoclonali, ad esempio, funzionano meglio in vivo che in vitro. Senza test su modelli animali, però, la loro vera efficacia nel salvare vite non sarebbe mai stata scoperta e la conseguente opzione terapeutica non sarebbe disponibile per i malati.
- Infine, per studiare la biologia e i fenotipi conseguenti a manipolazioni genetiche. In campo oncologico, sappiamo moltissimo su cosa fanno certe mutazioni e sulla biologia dei geni implicati nello sviluppo dei tumori proprio grazie a topi transgenici. Queste manipolazioni si possono fare (e vengono in effetti fatte) anche in cellule, ma non possono ricapitolare l’effetto sull’intero tessuto/organismo.
La scelta del “modello”
In campo oncologico pressoché tutti i farmaci vengono testati in vivo, anche perché ogni farmaco destinato all’uso in pazienti deve, per legge, essere prima testato in modelli animali. Ma come si decide quali modelli usare?
In campo oncologico, spesso, si inizia dai topi, soprattutto per generare modelli di tumore affini a quelli umani. Topi transgenici sviluppano tumori con mutazioni specifiche e possono essere utilizzati sia per studiare i meccanismi di crescita tumorale e sviluppo delle metastasi, sia per testare nuove terapie tanto contro una specifica mutazione/proteina che di immunoterapia. Ci sono poi topi con sistema immunitario compromesso che permettono l’attecchimento di cellule tumorali umane. Questi modelli, ciascuno dei quali rappresenta il tumore di uno specifico paziente, sono particolarmente utili per misurare l’efficacia di nuovi farmaci in un sistema il più simile possibile ai tumori umani che sono molto eterogenei.
Di frequente, poi, non si parla di singolo modello ma di modelli. Sebbene infatti la normativa possa variare in base alla specificità del singolo caso, a livello generale, un nuovo farmaco deve essere testato per tollerabilità/tossicità in almeno due modelli animali prima di poter essere somministrato nel corso di un clinical trial (abbiamo parlato dell’importanza dei clinical trial come vere e proprie opzioni terapeutiche in questo articolo). Di solito si usano ratti (meno frequentemente topi), e poi una seconda specie, spesso cani. Questo permette di scartare farmaci troppo tossici, ma anche di identificare i possibili effetti collaterali che potrebbero insorgere nei pazienti in seguito a dosaggi alti o prolungati di un farmaco. Queste informazioni sono essenziali per disegnare studi clinici sperimentali (clinical trials) che non mettano a rischio la vita dei pazienti.
Il problema etico
La questione etica è lecita, e una costante discussione nel merito è doverosa e, anzi, necessaria, ma per risultare efficace non può prescindere da un’accurata, imparziale e oggettiva rappresentazione della realtà.
La legislazione sulla sperimentazione animale è rigorosa, con rigidi parametri scientifici ed etici volti a evitare l’uso inutile di animali e ogni tipo di sofferenza. Negli studi scientifici, i protocolli per la sperimentazione animale devono essere articolati, dettagliare modalità e finalità dell’impiego di modelli animali, specificare quali e quante misure saranno intraprese per mitigare i possibili effetti della sperimentazione. Il processo di approvazione di un protocollo di sperimentazione animale richiede mesi e prevede l’attento scrutinio sia etico sia scientifico di un apposito comitato composto da scienziati, veterinari, e, almeno negli USA, anche da persone “comuni” in rappresentanza dell’interesse e della sensibilità del pubblico.
Durante ogni esperimento, gli animali vengono monitorati quotidianamente da un team, guidati da una figura veterinaria specializzata, che si occupa di controllare numerosi parametri clinici e di garantire trattamenti adeguati in merito ad alimentazione, condizioni igieniche e aspetto sociale degli animali. Nel caso di interventi chirurgici, per esempio quando un tumore umano viene impiantato nel corrispondente tessuto/organo del topo, sono seguiti protocolli rigorosi – molto simili a quelli adottati nelle sale operatorie umane – per tutto ciò che concerne sterilità, anestesia, monitoraggio, uso di farmaci analgesici e recupero postoperatorio.
In aggiunta al team veterinario, ogni istituto impiega anche specifiche figure addette al controllo (quality assurance) con lo scopo di garantire che i protocolli siano rispettati e che il personale responsabile abbia il training necessario.
Conclusioni
Come speriamo di aver chiarito, la sperimentazione in vivo rimane una risorsa inderogabile e un compromesso inevitabile nel progresso scientifico e, nello specifico, per lo sviluppo di nuovi farmaci e terapie. Solo pochi anni fa, ad esempio, il team del professor Scaltriti, vicepresidente di Medendi, rilevò in vitro che la combinazione di un inibitore di PI3K con un inibitore di HER2 era incredibilmente efficace, una vera e propria “bomba”. La stessa combinazione, testata poi in vivo, si dimostrò però talmente tossica da essere intollerabile – letale – per tutti i topi utilizzati nella sperimentazione. Sarebbe stato possibile predire un tale livello di tossicità su modelli in vitro o in silico? No, e cosa sarebbe accaduto, se dalla sperimentazione in vitro si fosse direttamente passati alla sperimentazione clinica, è tanto inaccettabile quanto facilmente ipotizzabile.
D’altro canto, ciò non implica che il dibattito che accompagna da lungo tempo questo tema sia inutile né, tantomeno, che vada posto sotto silenzio. Un dibattito informato, equidistante e oggettivo è, al contrario, uno strumento preferenziale per accogliere istanze di natura scientifica, procedurale, normativa, etica capaci di contribuire al miglioramento del presente così che divenga un futuro progresso. Nel frattempo, è doveroso prendere atto della realtà: senza sperimentazione animale, le possibili scelte sono due: rallentare – al punto di arrestare – lo sviluppo di nuovi farmaci e nuove terapie, oppure chiedere a qualcuno di prendere comodamente posto su quel sedile, dentro quell’abitacolo sperimentale, al posto del pupazzo dipinto di giallo, al posto del crash test dummy.